Basta un immagine: quei “bravi ragazzi” della corrente andreottiana che in rallenti avanzano compatti verso di noi. Immagine tipica da film americano, dai Magnifici 7, a Le iene (fino ad Armageddon) e ad altre decine di film. Ebbene, il Cirino Pomicino, il Vito Sbardella e tutta la combriccola andreottiana, si mangia in un solo colpo, Scorsese, Coppola, Tarantino, De Niro, Joe Pesci, Marlon Brando, Al Pacino, e decenni di cinema americano di malavita e mafieria varia.
Perché quelle storie lì, gli americani se le inventano, noi invece, ce l’abbiamo vere, in casa, a portata di mano, in parlamento, al governo. E’ tutto vero, ed è questa forse la sola debolezza del film, perché si fa fatica a star dietro a questo cumulo di porcherie che il film cerca di condensare e può solo sfiorare.
Già dal primo minuto si capisce, però, che lo straordinario del film non è il "cosa", ma il "come" Sorrentino ci racconta la storia d’Italia degli ultimi 40 anni. Perché “Il Divo”, nel modo e nell’approccio al racconto, è il film meno “all’italiana” degli ultimi 40 anni..
Sorrentino parte dal momento più squallido della prima repubblica, la caduta, e di conseguenza dal declino del suo Padrino, e racconta il tutto con un tono distaccato, ironico, e irriverente (un tono andreottiano) che a tratti sfocia nel grottesco puro.
D’altronde per raccontare la farsa della politica italiana non si poteva scegliere tono più efficace.
Tutta la sequenza iniziale (presentazione dei personaggi e sfilza impressionante di omicidi) è un omaggio a Scorsese e al miglior Tarantino. Che a tratti Sorrentino supera. Basti pensare all’uso tipicamente “scorsesiano” che fa della musica, la sequenza “I migliori anni della nostra vita”, non va tragicamente oltre il suo modello?
Anche Tony Servillo va tragicamente oltre il suo modello, che non è tanto Andreotti, ma piuttosto Nosferatu, (e viene da pensare se Klaus Kinski, quando fece Nosferatu, non si sia ispirato ad Andreotti). Fantastica anche la sequenza della “tratta dei voti” per eleggere Andreotti presidente: Cirino Pomicino diventa marionetta, maschera della commedia dell’arte, e tra Goldoni e “Le Regole del gioco” di Renoir, il film descrive, come mai prima d’ora, il “teatrino” della politica italiana. Fotografia (di Bigazzi) elegantissima, curatissima, inquadrature che osano, movimenti, macchina a un centimetro dai volti, dalle rughe del viso, a deformare (più che a indagare come fa il Garrone di Gomorra).
D’ora in poi si dirà: un film alla Sorrentino.
Perché quelle storie lì, gli americani se le inventano, noi invece, ce l’abbiamo vere, in casa, a portata di mano, in parlamento, al governo. E’ tutto vero, ed è questa forse la sola debolezza del film, perché si fa fatica a star dietro a questo cumulo di porcherie che il film cerca di condensare e può solo sfiorare.
Già dal primo minuto si capisce, però, che lo straordinario del film non è il "cosa", ma il "come" Sorrentino ci racconta la storia d’Italia degli ultimi 40 anni. Perché “Il Divo”, nel modo e nell’approccio al racconto, è il film meno “all’italiana” degli ultimi 40 anni..
Sorrentino parte dal momento più squallido della prima repubblica, la caduta, e di conseguenza dal declino del suo Padrino, e racconta il tutto con un tono distaccato, ironico, e irriverente (un tono andreottiano) che a tratti sfocia nel grottesco puro.
D’altronde per raccontare la farsa della politica italiana non si poteva scegliere tono più efficace.
Tutta la sequenza iniziale (presentazione dei personaggi e sfilza impressionante di omicidi) è un omaggio a Scorsese e al miglior Tarantino. Che a tratti Sorrentino supera. Basti pensare all’uso tipicamente “scorsesiano” che fa della musica, la sequenza “I migliori anni della nostra vita”, non va tragicamente oltre il suo modello?
Anche Tony Servillo va tragicamente oltre il suo modello, che non è tanto Andreotti, ma piuttosto Nosferatu, (e viene da pensare se Klaus Kinski, quando fece Nosferatu, non si sia ispirato ad Andreotti). Fantastica anche la sequenza della “tratta dei voti” per eleggere Andreotti presidente: Cirino Pomicino diventa marionetta, maschera della commedia dell’arte, e tra Goldoni e “Le Regole del gioco” di Renoir, il film descrive, come mai prima d’ora, il “teatrino” della politica italiana. Fotografia (di Bigazzi) elegantissima, curatissima, inquadrature che osano, movimenti, macchina a un centimetro dai volti, dalle rughe del viso, a deformare (più che a indagare come fa il Garrone di Gomorra).
D’ora in poi si dirà: un film alla Sorrentino.
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